La Sindrome di Ulisse: vivere all'estero, l'occasione di perdersi per ritrovarsi

05.09.2023


Al di là delle motivazioni che spingono una persona ad un trasferimento in un paese diverso da quello di origine, la partenza è sempre un'esperienza psicologica complessa e comporta inevitabilmente una serie di azioni di riadattamento che coinvolgono fortemente la sfera emotiva e psicologica.

Vi è una necessaria riorganizzazione della vita che coinvolge diversi aspetti. La casa, le relazioni, la famiglia, il lavoro, le consuetudini, la lingua, e potremmo continuare con altre numerose.

Tutto ciò influisce sul proprio senso d'identità e ci mette di fronte ad una instabilità emotiva alla quale ognuno reagisce in maniera differente sulla base dei propri funzionamenti.

E' così che può comparire un forte senso di estraneità che può essere identificato come, appunto, Sindrome di Ulisse o sindrome dell'emigrantedefinendo quella modalità per la quale la persona può idealizzare il paese di destinazione svalutando quello di arrivo o viceversa. Comincia perciò ad identificare l'uno come la causa di tutti i mali e l'altro come la situazione idilliaca, risolutiva di ogni difficoltà.

In entrambi i casi è chiaro come le difficoltà ed il disagio emotivo del momento possano dare vita ad una emotività che la persona non riesce a gestire. Per farvi fronte si rifugia nell'idealizzazione e nella svalutazione per trovare in qualcosa che è altro da sé la causa e il capro espiatorio del proprio disagio.

Questa disturbo emotivo può ritrovarsi espresso tramite disturbi di vario tipo come ansia, nervosismo, disturbi del sonno, sentimenti depressivi, pensieri intrusivi e disturbanti come anche comportamenti compensativi di dipendenza e molti altri.

Come possiamo affrontare queste "sintomatologie emotive"?

Fa in parte sorridere pensare a quanto attenti possiamo essere di fronte ad un'influenza, un'infiammazione, un dolore localizzato, insomma a tutti quei sintomi che culturalmente siamo portati ad attenzionare con facilità e verso i quali siamo più facilmente predisposti ad intervenire con un rimedio.

Diversamente di solito agiamo nei confronti del disagio emotivo che spesso trasciniamo avanti assieme a tutte le sue forme di espressività per lungo tempo, procrastinandone l'intervento.

In realtà tale disagio e i suoi sintomi non fanno altro che richiamare la persona all'attenzione nei propri confronti e di quelli di situazioni personali che da tempo può stare trascurando.

In questo senso il sintomo fisico o psichico è l'occasione che ci permetterebbe, se attenzionato, di porre rimedio al malessere ed alla sofferenza che proviamo. 

Come mai la tanta fatica a porvi attenzione?

Molto sta nel cercare di comprendere cosa ci fa più paura del guardare dritto negli occhi il nostro disagio e del perché tendiamo sempre a trovare scuse per non affrontarlo e strategie per girarci intorno.

Spesso in questo sono coinvolti timori profondi circa l'entrare in contatto con aspetti di noi con i quali abbiamo da sempre poca confidenza, o parti del nostro vissuto dolorose rispetto alle quali tendiamo a fuggire e che non sapremmo gestire nel caso venissero a galla in maniera confusionaria ed improvvisa.

Quale spazio, dunque, per accogliere il disagio emotivo?

Questo è un percorso che riesce ad avere luogo, per la maggior parte, quando la persona si sente al sicuro ed in uno spazio emotivo di accoglienza e protezione quale può costituirsi la relazione terapeutica.

All'interno di essa, quando se ne sono creati i presupposti, possiamo sentirci nelle condizioni di abbassare le nostre difese ed accedere alle zone della nostra interiorità rimaste a lungo in ombra, sicuri della competenza di chi può guidarci in questo ulteriore viaggio, stavolta interiore più che fisico ma altrettanto ricco di emozioni.

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